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TINO COSTA, CRESCIUTO A PANE E PALLONE

23.12.2014 | 11:45

Pane e pallone: se la storia di Tino Costa diventerà un libro o un film non potrà che intitolarsi così. Si, perché il nuovo acquisto del Genoa da piccolo ha lavorato anche in panetteria. A Las Flores, d’altro canto, il sobborgo a una mezz’oretta da Buenos Aires dove è nato il 9 gennaio 1985, devi darti da fare se vuoi raccogliere qualche soldino. E Alberto Facundo Costa, per tutti Tino, nella vita ha sempre sudato per conquistare qualcosa. Mamma Viviana gli ha trasmesso la passione per il calcio, papà Alberto Carlos l’amore per il San Lorenzo,  Pane e pallone – nel senso letterale del termine – per il piccolo Tino, soprannominato così perché a detta del nonno era tale e quale ad un personaggio di una novela argentina con questo stesso nome. La sveglia all’alba, le consegne del pane, poi gli allenamenti col pallone nel La Terraza, la squadretta della sua città. Tanti sacrifici, tante rinunce. E qualche occasione mancata. A 13 anni fa due provini, al Boca e all’Estudiantes. Il primo salta per la pioggia, al secondo si presenta col polso rotto per un banale incidente domestico. La chiamata arriva, ma qualche anno dopo. Boca? River? O il ‘suo’ San Lorenzo? No. Un amico riesce a ‘raccomandarlo’ al Basse-Terre, campionato delle Guadalupe, un’isola delle Antille. “Donde estas Guadalupe?”, chiede Tino agli amici. Glielo spiegano, devono rincuorarlo. Ma tutti credono in lui, nel ‘canon zurdo’, il cannone mancino, nomignolo affibbiatogli per la potenza e la precisione del suo piede. Ci mette un po’ a convincere la famiglia, che non vuole lasciarlo partire: c’è quel posto in panetteria che lo aspetta. Ma Tino s’impone. Raggiunge i Caraibi, impara qualche parolina di francese, anche se fatica ad inserirsi nel gruppo. Gli fanno compagnia le canzoni di Ricardo Arjona, un cantante argentino, e la malinconia. Non è saudade, quella che prende i brasiliani. È nostalgia di casa, dove torna quando e appena può. I sacrifici lo ripagano dopo due anni. I club francesi hanno emissari ovunque, anche e soprattutto nelle ex colonie. E Tino il mancino, un piede sinistro fatato e una tempra tutta argentina, si guadagna l’attenzione del Racing Club Paris. Si trasferisce in Francia e nel giro di pochi mesi si guadagna le attenzioni di altri club. Nel 2005 passa al Pau, nei Pirenei, dove fa amicizia con Gignac. Nel 2007 va al Sete. Sembra destinato ad una ‘tranquilla’ carriera nei campionati minori francesi. Sembra. Perché nel 2008 il canon zurdo finalmente esplode. Lo chiama il Montpellier, che trascina a suon di gol dalla Ligue 2 alla Ligue 1, diventando l’idolo dei tifosi. E due anni più tardi passa al Valencia, che mette sul piatto 6 milioni e mezzo per prenderlo. Ogni volta che deve trasferirsi ci mette un po’ ad abituarsi. Fatica ad adattarsi agli allenamenti più serrati della Liga, ma la buona sorte gli concede una chance. La coglie al volo. Quando si fa male Banega, Unai Emery scommette su di lui. E Tino Costa conquista il Mestalla. Tre anni ad alta quota, tra gol, prodezze e due apparizioni in Nazionale. Tino il panettiere torna a casa con la camizeta albiceleste, ma non è finita. L’anno scorso lo chiama lo Spartak, gli offre soldi, tanti soldi per sbarcare a Mosca. Sette milioni al Valencia, un contratto principesco a lui: Tino accetta, anche se a malincuore perché a Valencia si trova bene. Ma l’offerta è irrinunciabile. Un anno e mezzo in Russia, giusto per rimpinguare il portafoglio. Poi la chiamata di Preziosi. Al Genoa serve un centrocampista di personalità, uno che sappia dare del tu al pallone, con visione di gioco e piedi buoni, per dare l’assalto al terzo posto, all’Europa. Serve uno cresciuto a pane e a pallone. Serve Tino Costa.