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ROBERTO DI MATTEO, IL PREDESTINATO

08.10.2014 | 09:15

Si è sempre sentito italiano vero, italiano dentro (a 17 anni rifiutò la Nazionale elvetica, sua terra di origine). Ma in fondo è sempre stato anche un po’ svizzero e un po’ tedesco, sia da giocatore che da allenatore. E proprio dalla Germania ricomincia Roberto Di Matteo. Uno che è sempre stato definito “allenatore in campo” per la sua intelligenza e sagacia tattica, uno che allenatore lo è poi diventato, con esiti più che positivi, anche a causa del grave infortunio che lo costrinse al ritiro anticipato dall’attività agonistica. Lo Schalke 04, dopo 8 punti in 7 giornate, ha deciso di puntare sul 44enne nato in Svizzera, a Sciaffusa. Al posto di Jens Keller serviva un tecnico di grande personalità, già rodato e molto motivato. Di Matteo è il profilo giusto. Profondamente “svizzero” nell’applicare con precisione e attenzione al dettaglio i dettami dei suoi primi allenatori. Iniziò da difensore centrale nel suo paese con le maglie di Sciaffusa, Zurigo e Aarau. 7 gol da libero e la vittoria di un campionato erano più che semplici indizi. Tanto che la Lazio di Dino Zoff decise di investire su di lui nel ’93. Nonostante una concorrenza assai agguerrita, Di Matteo conquistò il posto da titolare in mezzo al campo, da vero professore del gioco. Geometria, velocità di pensiero e ottimo piede destro, anche nella ricerca del gol dalla distanza, le sue caratteristiche più evidenti. Che divennero indispensabili con l’avvento di Zdenek Zeman sulla panchina biancoceleste, nel ’94. Di Matteo era il faro di quella squadra formato 4-3-3. Tra vittorie roboanti, titoli sfiorati e prestazioni importanti che lo portarono a vestire anche la maglia della Nazionale (partecipò agli Europei ’96 e ai Mondiali ’98), Di Matteo raggiunse con il boemo il top della sua carriera. Un paio di stagioni esaltanti, che si chiusero però con la frattura insanabile tra il giocatore e lo stesso Zeman. Nel ’96 il centrocampista fu acquistato dal Chelsea: adattamento rapido ed efficace alla nuova realtà “british”, in linea con la sua personalità poco appariscente ma super tangibile. Una Coppa delle Coppe vinta nel ’98 e poi il terribile infortunio del 28 settembre 2000, nella sfida di coppa Uefa contro il San Gallo: triplice frattura alla gamba che lo costrinse a 10 operazioni in due anni, troppe anche per uno “tosto” come lui. Nella sua nuova vita da allenatore ha tentato di applicare le qualità già messe in campo da atleta. E lo ha fatto con successo, iniziando dal suo “nuovo” paese, l’Inghilterra, prima in terza divisione con i Milton Keynes Dons, poi conducendo alla promozione in Premier il West Bromwich, infine al Chelsea. Un anno da vice a Villas Boas per poi diventare tecnico della prima squadra nel 2012, anno d’oro per Di Matteo, vincitore in pochi giorni dell’FA Cup e soprattutto della Champions League, superando il Bayern Monaco ai calci di rigore (4-3, 1-1 dopo i 90′ regolamentari). Il primo italiano alla guida di un team straniero, capace di disputare e vincere una finale di Champions. Un predestinato. Che riparte dalla Germania, per stupire ancora.