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PIRLO DO BRASIL

17.06.2013 | 10:50

Quando sei straniero e lo stadio dei sogni, il Maracanà, invoca il tuo nome ogni volta che ti avvicini a battere una punizione, un calcio d’angolo, ogni volta che fai girare la palla, viene spontaneo pensare che  qualcosina nella tua carriera da calciatore sei riuscito a fare. Se poi, quando stai per battere il primo calcio da fermo, riesci pure a piazzarla all’angolino come tutti ti stanno urlando di fare, al 27esimo del primo tempo di Italia Messico, quello stesso stadio diventa pazzo ed ogni volta che tocchi palla è un’ovazione. Oltretutto, se sei un campione e ogni tocco e ogni apertura sono illuminati, cosa può succedere se non essere l’uomo partita. E’ quello che è accaduto ad Andrea Pirlo iera sera, in Confederations Cup, vero idolo del pubblico e protagonista di una partita fantastica, come tante volte gli è successo in carriera. Eppure per Pirlo non è stato sempre così. Prima di arrivare ad essere il giocatore che è oggi, a 34 primavere suonate, Andrea si è sentito dire che era troppo lento, che era fuori posizione, che era un giocatore finito prima ancora di essere iniziato, che non sarebbe mai riuscito a concretizzare il suo talento. Dopo l’esordio in Serie A a 16 anni e due mesi nel Brescia già retrocessso (il più giovane di sempre nella squadra lombarda) contro la Reggiana , passa un intero anno andando e venendo dalla primavera, dove vince il torneo di Viareggio. Nell’anno successivo viene impiegato con più continuità da Eddi Reja e aiuta a riconquistare subito la massima serie con 17 presenze e 2 reti. Nel suo terzo anno al Brescia incrementa ancora il suo minutaggio, sempre giocando da classico numero 10, arrivando a 29 partite e 4 gol che non servono, però, ad evitare il ritorno immediato in Serie B.  Pirlo però si è fatto notare per le sue geometrie e per la sua capacità di uomo assit e l’Inter lo ingaggia. Siamo nel 1998. In molti pregustano un nuovo trequartista di livello mondiale, ma l’anno all’Inter, forse anche per la giovane età, è piuttosto deludente. Andrea non trova quasi mai spazio nell’undici titolare e colleziona 18 presenze partendo dalla panchina. Riesce anche ad esordire in Champions League. Il club nero azzurro lo vede acerbo e lo manda a farsi le ossa alla Reggina. Quell’anno Pirlo è entusiasmante sulla trequarti. La Reggina è una squadra con molti giovani che va a mille all’ora e lui gioca con Baronio alle spalle e  Kallon davanti, che sembrano destinati ad una fulgida carriera. Finisce un campionato da protagonista (28 partite e 6 reti) e si torna a parlare di lui come un fenomeno. Si conquista la chiamata in Nazionale Under 21, per l’Europeo del 2000 e trascina la squadra alla vittoria, capocannoniere con 3 reti e nominato miglior giocatore del torneo. Partecipa anche alle Olimpiadi di Sidney, con la Nazionale, ma la spedizione non ha fortuna. Con queste premesse, torna all’Inter nel corso dell’estate, dopo il prestito.  Il pubblico lo aspetta e, sorprendentemente, lo giudica male. Viene considerato lento, macchinoso, inutile ai fini del gioco interista. Il campo lo vede con il binocolo e quando ci si affaccia viene fischiato da tutto il Meazza, ed il Meazza è uno stadio piuttosto capiente da cui farsi fischiare. La prima parte di stagione è una delusione e l’Inter si libera nuovamente di lui, mandandolo al Brescia di Carlo Mazzone il quale nel ruolo di trequartista ha Roberto Baggio, non uno qualunque. L’allenatore vuole inn campo entrambi e propone a Pirlo un’idea: sulla trequarti non c’è spazio, c’è già il “Divin Codino”, gioca da regista a centrocampo. Andrea accetta e fa 10 partite fino ad aprile, momento in cui si rompe il quinto metatarso del piede. Stagione finita, proprio quando sembrava si stesse per decollare. Tutto l’ambiene interista sembra non essersi accorto di quelle 10 partite, di come il ragazzo si muove in un ruolo non ancora suo. Sono tutti ciechi di fronte al suo talento. Eppure in quelle 10 partite si sono viste cose che in prospettiva hanno dell’incredibile. Lo considerano un bidone, da scaricare velocemente a qualche concorrente. Non sembra vero quando il Milan si dice interessato e lo porta a vestire la maglia rossonera per 35 miliardi di vecchie lire, in parte pagati con il cartellino Drazen Brncic (se vi state chiedendo chi sia, non stupitevi, se lo sono chiesto in molti). Nei corridoi di Appiano Gentile c’è gente che si frega le mani, pensando di aver fatto l’affare dell’anno e di aver passato una zavorra agli odiati cugini. E la stagione 2001-02 sembra dar ragione all’Inter: Pirlo, il trequartista, è panchinaro fisso in quel Milan. Poi l’anno successivo accade l’imponderabile, per molti. Si manifesta quell’imprevisto definito l’ultima speranza dal Poeta Montale. Si fanno male Gattuso ed Ambrosini, Ancelotti  ci pensa un bel pò, ne parla con Andrea, studiano l’esperimento di Mazzone, tornano a pensarci  un altro poco e lo mettono a centrocampo, davanti alla difesa, come regista arretrato. Un trequartista dalla parte opposta del campo. E’ la svolta della carriera. Il Milan gioca tutto l’anno a “rombo”, con il 4-3-1-2, con Pirlo vertice basso davanti alla difesa, insieme a Gattuso e Seedorf e Rui Costa (che purtroppo per il tifosi milanisti non è il Rui Costa della Fiorentina, ma ha comunque classe da vendere) da trequartista. Il tasso tecnico di quel Milan è altissimo è la squadra conquista la Champions League. La squadra giocherà in quella maniera, con vari interpreti ma sempre con Pirlo a tenere le redini, fino al 2011. In quel lasso di tempo (284 presenze, 32 reti), il Milan vincerà due scudetti, due Champions League, due Supercoppe Europee, una Coppa Italia, una Super Coppa Italiana e una Coppa del Mondo per Club. Personalmente, Pirlo conquisterà un Bronzo olimpico (tornando al suo vecchio ruolo sulla trequarti) come fuori quota e, soprattutto, un Campionato del Mondo da vero leader che farà sognare la nazione. In quel Mondiale di Germania Pirlo è il cervello arretrato della squadra. Nella prima sfida, contro il Ghana, mette subito il suo sigillo, segnando con un gran destro a girare dal vertice sinistro dell’area. In tutte le partite dispensa gran calcio, fino al magnifico assist no-look per Grosso, contro la Germania, che sblocca il risultato e fa urlare a tutta Italia “Andiamo a Berlino”. Nella finale contro la Francia si occupa del calcio d’angolo che Materazzi insacca per l’1-1 e segna il primo rigore della serie. Viene nominato miglior giocatore di entrambi gli ultimi match, oltre che del primo. Lippi lo definisce “un leader silenzioso che parla con i piedi” e ai suoi piedi è l’intero panorama calcistico mondiale, anche se il Pallone d’Oro non arriva nemmeno questa volta. Alla fine del 2011, dopo la conquista dello scudetto, Allegri non ha più fiducia in lui e in tanti altri senatori milanisti. Ha vinto tutto e ha fatto vincere tutto, ma non si crede in lui. Voci lo considerano finito, senza fiato, senza più il ritmo dei giorni migliori, non adeguato al calcio del nuovo Milan. Pirlo saluta i compagni uno ad uno, piangendo, e se ne va. Lo prende la Juventus, a parametro zero. Conte lo fa tornare in forma come non mai, e lo piazza nel suo posto: regista davanti alla difesa.  Anche il suo numero è lo stesso, il 21. E’ solo cambiata la maglia perchè anche i piedi ed il talento ci sono ancora, e sono infiniti. Pirlo è come il vino: più invecchia meglio è. Prende in mano la squadra, che è una macchina che va a 200 all’ora, e vince il campionato, con tanti saluti ad Allegri e a chi non ci credeva più. Finisce il campionato con 13 assist ,3 reti e milioni di tocchi di un’intelligenza calcistica straordinaria. Diventa il sesto calciatore di sempre ad aver vinto due campionati consecutivi con due maglie diverse. L’ 11 agosto 2012 vince la Supercoppa italiana, la sua seconda personale, contro il Napoli e il 5 maggio 2013 vince il secondo scudetto di fila con la Juventus, arrivando anche ai quarti in Champions League, eliminati solo dal Bayern vincitore del torneo. Poi, il 16 giugno 2013, ieri, il Maracanà. Lo stadio dei sogni invoca il suo nome e lui segna su una punizione telecomandata, come un cantante che esaudisce paziente la richiesta dell’ennesimo bis per i fan, il giorno della sua 100esima in azzurro. Niente male, Andrea, per essere un panchinaro troppo lento e non adatto al calcio moderno…