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HENRY, UN UMILE GENIO

17.12.2014 | 11:41

“Sì, può venire al Monaco, ma deve iscriversi alla scuola di Clairefontaine e deve anche impegnarsi, altrimenti il preside lo caccia”: la parole che Arnold Catalano rivolge ad Antoine Henry sanno già di vittoria e per il piccolo Thierry non rappresentano il minimo problema. Non ha tanta voglia di studiare ed i suoi risultati scolastici sono scarsi, ma una cosa risulta molto chiara nella testa del giovane Henry: vuole fare il calciatore e se per riuscirci dovrà studiare un po’ nessun problema. Lo dichiarerà in’un intervista al portale ufficiale dei New York Red Bulls, molti anni più tardi: “non avevo nessun piano B, davvero, ho sempre pensato solo a fare il calciatore, per me era l’unica alternativa possibile e devo ringraziare mio padre per avermi trasmesso questa mentalità”. Già, Papà Antoine: originario della Guadalupe, porta moglie (martinicana) e figlio (francese) a vivere a Parigi. La famiglia è molto importante per Henry: anche nel quotidiano, a chi gli chiede quale sia la sua cucina preferita dopo aver girato il mondo, Thierry risponde candidamente “quella di mia madre”. A Parigi il futuro calciatore, nonostante le difficoltà ambientali, riesce ad avvicinarsi al mondo del calcio. La svolta, arriva dopo 6 gol arrivati in una sola partita: il procuratore Catalano lo porta alla corte di Arsene Wenger, allenatore delle giovanili del Monaco e suo futuro mentore. Non sa però dove schierarlo: ha un bel tiro, quindi al centro dell’attacco ci andrebbe bene, ma come non tenere in conto della velocità e la classe che gli permettono di saltare facilmente l’uomo? Arsene opta quindi per il ruolo di ala. Tanto male non va: Henry segna quel poco che basta, fa assist, la sua squadra arriva in semifinale di Champions. Tanto basta per farlo ingaggiare dalla Juve, che con 70 milioni di franchi ultima l’acquisto più costoso del calcio francese fino a quel momento. Sì, cose che sappiamo: come sappiamo che alla Juventus non andò tanto bene. Forse però non tutti sanno ancora che il motivo della sua partenza furono gli screzi con Luciano Moggi, arrivati quando con Ancelotti il francese cominciava a carburare (una doppietta alla Lazio). Niente da fare: Tatì a Torino non ci vuole più stare. Va a Londra, all’Arsenal, dove il suo maestro Wenger sta cominciando a vincere tutto: lo piazza al centro dell’attacco e gli cambia semplicemente la carriera. A cavallo di questo periodo, arriva il suo bottino grasso con la Nazionale: un Mondiale ed un Europeo, per la gioia, si fa per dire, degli italiani. Poi tante, forse troppe, polemiche: un gol di mano alle qualificazioni mondiali contro l’Irlanda lo mette al centro della critica internazionale, tanto da fargli accusare il colpo a livello psicologico. Ma torniamo agli anni d’oro: con l’Arsenal segna e vince tanto in patria (miglior marcatore della storia dei Gunners) e arriva in finale di Champions. Dovrà aspettare il passaggio al Barcellona per vincerla: qui, con Eto’o e Messi forma il tridente più prolifico della storia spagnola, altro record. Il tempo passa però ed il minutaggio scende, complice anche l’esplosione di Pedrito: Henry invece vuole giocare e va negli Stati Uniti, nei New York Red Bulls, dove continua a segnare caterve di gol, non prima di essersi concesso però un rendez vous con l’Arsenal per qualche mese prima di ritornare in MLS, cosa che si mormorava potesse riaccadere anche in questi giorni. “Vi è piaciuto Rocky? Credo che i successivi vi siano piaciuti sempre meno”: il suo commento riguardo l’ennesimo ritorno a Londra è lapidario, la sua carriera da giocatore termine a New York. Tuttavia a Londra ci ritorna, ma da commentatore: lavorerà a Sky Sports, la notizia è di pochi giorni. Anche perché, modestia a parte, Henry non sa solo giocare al pallone: si è da sempre fatto promotore delle campagne contro il razzismo, ultimamente ha fondato anche all’associazione “One 4 All” ispirandosi al suo storico numero 14. Una volta Aragones disse a Reyes di far capire ad Henry, “negro di merda”, chi fosse il più forte: nessuna risposta al tecnico, solo tanto lavoro affinché certe uscite fossero solo un ricordo. Ma non chiamatelo eroe: “io? Faccio divertire la gente e questo mi rende felice, ma gli eroi sono quelli che salvano vite umane o lottano per la propria patria”, dichiarò una volta. Con l’umiltà del fenomeno assoluto, ha dichiarato anche: “quello che i dilettanti chiamano genio, si chiama pratica per i professionisti”. Mentre arrivi all’Emirates Henry, spiegalo anche agli altri calciatori però, a quelli che all’esterno dello stadio, vedranno campeggiare una tua statua in bronzo…