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Kobe Bryant, quel “fringuello” (presto Mito) che scorrazzava dentro il Botteghelle di papà Joe

27.01.2020 | 10:30

Una tragedia enorme, la tragica scomparsa di Kobe Bryant. E i ricordi che tornano come se fosse una storia di dieci minuti fa, non di 33-34 anni fa. Era la stagione 1986-87, io giovanissimo telecronista sognatore di Reggio Calabria, la Viola (allora Standa) era già un culto. All’improvviso sbarcò Joe Bryant, il papà di Kobe: durò appena un anno, arrivava da Rieti e sarebbe poi andato a Pistoia prima di chiudere il suo tour italiano a Reggio Emilia, tuttavia lasciò ricordo indelebili. Grandissima ala, segnava in sospensione anche da otto metri con due avversari aggrappati nel vano tentativo di limitarlo, se ne infischiava dei raddoppi di marcatura. Un cecchino vero, per forza quel dna avrebbe dovuto dare la luce a quel pazzesco fuoriclasse che è stato suo figlio. In quella stagione a Pescara Joe fece 69 punti nella stessa partita, dopo tre o quattro supplementari. Frammenti che restano davvero nella memoria come se fosse ieri, in modo particolare perché per un problema video non venne la registrazione. Tutta la città voleva gustarsi la permorfance e anche lui, per tutti “Jellybean”, di una simpatia perforante. Ricordo in modo indelebile che tra il primo e secondo tempo di qualsiasi partita casalinga (all’interno del mitico Bottegelle, non era ancora sorto il Pentimele da novemila posti) tutti i ragazzini utilizzavano quei dieci minuti per scorrazzare da una parte all’altra del parquet: tiravano a canestro, si rincorrevano, si divertivano, complici di un’invidiabile spensieratezza. Dolcissimi. C’era anche lui, Kobe (che vedete inconfondibile in una foto d’epoca: ringrazio Rocco Romeo, mio fraterno amico che lo allenò intuendo di avere tre le mani un fenomeno spaziale).

Rammento in modo nitido quell’irrefrenabile “fringuello”, di una velocità inaudita, il più scatenato di tutti, con la mamma (l’affascinante Pamela, moglie di Joe) che se lo mangiava con gli occhi seduta in parterre dietro il canestro, nella stessa zona riservata a fidanzate e compagne dei cestisti. Quelle scena, ora, sono un indicibile tormento. Kobe sarebbe diventato presto una stella di prima grandezza, il mito della NBA, un esempio per tutti, l’idolo assoluto. Il Basket, la Storia, la Leggenda. Pensare a quei giorni di sfrenata allegria (Joe era davvero un compagnone, l’amico della porta accanto, il fratello che non avevi) in questi interminabili minuti di tragedia è qualcosa di inaudito. E non esistono le parole, cancellate dai ricordi, dai sogni, dai successi e dalle fantastiche vicende della comune esistenza che in minuto diventano carta straccia, drammi assurdi.

Joe, non potranno mai dirti “questa è la vita” quando in un nano secondo ti porta via tutto. Non mi leggerai ma vorrei tanto tornare indietro di oltre 30 anni: non per arrestare il tempo maledetto che nessuno ferma. Ma per violentare questi momenti folli che il mondo intero (compreso chi non sa cosa sia una palla a spicchi) vivrà con te e con la tua famiglia. Anche chi non ti ha conosciuto. Ieri mi veniva da piangere dentro lo stadio San Paolo, mentre scorreva Napoli-Juve:  mi rimbalzava in testa quel film di una beata gioventù, quella di Kobe che ora non c’è più, prigioniero di una feroce e inarrestabile nostalgia. Come se, all’improvviso, chiunque dovesse pagare un tributo eterno e vigliacco a quella che chiamano Felicità.