Rizzo Marullo: “Ecco perché gli americani investono nel calcio italiano. E sui diritti tv…”
21/02/2022 | 21:30:15

La notizia della settimana, vicende di campo a parte, è indiscutibilmente rappresentata dall’acquisizione della quota di controllo dell’Atalanta, per una cifra oscillante attorno ai 400 milioni di euro, da parte del gruppo di investitori americani guidato dal finanziere Stephen Pagliuca. Con la Dea a stelle e strisce, salgono a 8 (su 20) i club di Serie A passati nelle mani di un gruppo nordamericano. Per approfondire la questione, abbiamo intervistato l’avvocato Francesco Rizzo Marullo, partner dello studio di consulenza Axe Consulting, con sede proprio a Boston.
La prima domanda nasce spontanea: chi è Stephen Pagliuca?
Un manager di primissimo livello che attualmente è co-chairman del fondo d’investimento Bain Capital. Stiamo parlando di uno dei fondi più importanti degli Stati Uniti, che gestisce assets dal valore di oltre $155 miliardi di dollari. Inoltre, come ormai ben sappiamo, è comproprietario dei Boston Celtics, che con i loro 17 titoli hanno scritto la storia della NBA. Un uomo d’affari ma anche un vero amante dello sport e del calcio italiano in particolare, tant’è che anni fa aveva mostrato interesse per il Cagliari, nonché per la Roma ai tempi dell’altro bostoniano doc, James Pallotta.
Il nostro massimo campionato è sempre più legato a doppio filo agli States…
Assolutamente. Io però parlerei di un interesse al nostro calcio in maniera estensiva, posto che ben 14 club tra Serie A, B e C sono di proprietà nordamericana. Limitandoci alla massima serie, se nell’estate del 2011 l’acquisto, per circa 100 milioni di dollari, del 60% della Roma da parte di Thomas DiBenedetto della Boston International Group venne considerato un’anomalia, oggi siamo praticamente di fronte ad una costante: il 40% dei club di A fa capo ad una proprietà americana. Oltre all’Atalanta, ricordiamo infatti il Milan (fondo Elliot, New York), la Roma (Friedkin Group, Houston), la Fiorentina (Mediacom Group, New York), lo Spezia (MSD Capital, New York), il Venezia (Duncan L. Niederauer, New York), il Genoa (fondo 777 Partners, Miami) ed il Bologna (Saputo Group, Montreal-Canada). E non dimentichiamo che al novero potrebbe in futuro aggiungersi anche l’Inter, nel caso in cui la famiglia Zhang non riuscisse ad onorare il prestito, da 275 milioni di euro, concesso dal fondo Oaktree lo scorso maggio.
Ma quali sono le ragioni che spingono i gruppi nordamericani ad investire nel calcio italiano?
Esiste, a mio avviso, una dicotomia di fondo. Da un lato, troviamo i fondi e i gruppi nordamericani, che hanno resistito alla pandemia, hanno in cassa tantissima liquidità e cercano investimenti remunerativi in presenza di tassi d’interesse molto bassi.
Dall’altro la profonda crisi della Serie A, passata da primo campionato europeo, a cavallo tra gli Anni ‘90 e i primi 2000, a quarto campionato dopo Premier, Liga e Bundesliga. Una crisi che ha radici profonde e che la pandemia ha soltanto palesato in tutta la sua gravità. A tal riguardo dovremmo tenere sempre a mente le recenti dichiarazioni della manager Amanda Staveley, braccio operativo del fondo arabo PIF: ‘Avevamo parlato anche con Inter e Milan, ma il problema è che la struttura del campionato italiano è un disastro, per cui abbiamo preferito investire nel Newcastle’. Parole che mi hanno colpito molto perché hanno sostanzialmente proclamato, a livello globale, questo stato di crisi certificato anche dai numeri. Un recente rapporto della UEFA ha analizzato l’impatto della pandemia sui ricavi dei club europei evidenziando come, nelle stagioni sportive 2019-2020 e 2020-2021, i club abbiano registrato un calo dei ricavi pari a sette miliardi di euro. Il calcio italiano, in particolare, è stato quello, tra i cinque campionati più importanti, i cosiddetti Big Five, a subire la contrazione maggiore con una perdita del 26%.
In questo contesto, è quasi inevitabile che le nostre squadre diventino un target per i fondi d’investimento, con la possibilità di acquistare a sconto rispetto alle società di altri campionati. Pensiamo al Milan, che nel 2018 venne interamente acquisito dal fondo Elliot, tramite l’escussione del pegno nei confronti di Yonghong Li, per circa 400 milioni, nonostante il blasone del club e l’importanza del marchio. Oggi Pagliuca ha speso la stessa cifra per ottenere il 55% della controllante, corrispondente al 47,5% circa dell’Atalanta. E in ogni caso parliamo di inezie rispetto al valore dei top club europei: dai 4,7 miliardi di dollari di Real e Barça ai 4,2 miliardi di Manchester Utd e Bayern, per arrivare alla Juve, valutata 1,95 miliardi dalla più recente stima di Forbes.
Ma è solo una questione di convenienza del prezzo a motivare i fondi d’oltreoceano?
No, il costo basso è una delle componenti che spingono all’acquisto dei nostri club, ma altri fattori giocano un ruolo chiave, in primis utilizzo degli stadi e diritti tv.
Il primo punto rappresenta una questione annosa, gli impianti italiani sono vecchi (56 anni di media in Serie A) e inadeguati: non a caso registriamo il secondo minor afflusso di spettatori tra i cinque campionati principali. A ciò si aggiunga che solo il 20% di essi appartiene ai club (Juventus, Udinese, Atalanta e Sassuolo), mentre il 70% è di proprietà comunale e il restante 10% del Coni. Anche in questo siamo molto indietro rispetto a Spagna (40% di stadi di proprietà), Germania (61%) e Inghilterra (80%).
Lo stadio pensato “all’americana” diventa, nell’ottica dei nuovi proprietari, una componente strategica nella vita di un club. Un impianto moderno, fruibile 365 giorni l’anno, accattivante e, pertanto, capace di attrarre grandi sponsor. Un vero polo dell’entertainment con centri commerciali, negozi, musei, uffici, alberghi, ristoranti, centri congressi e parchi tematici, in grado di generare ricavi alternativi all’evento sportivo in sè e conseguentemente far aumentare il fatturato dei club. Leggendo le cronache, sarebbe auspicabile un’accelerazione di tutti gli iter burocratici. E gli investitori pensano anche al fatto che il calcio in Italia sostanzialmente non ha concorrenza sportiva, con oltre 25 milioni di tifosi o, come dicono in America, “potenziali clienti”.
I diritti tv meritano un supplemento di riflessione: quali sono le cifre che girano in America?
Sì, l’altro macro-tema è rappresentato appunto dai diritti televisivi, che costituiscono la principale fonte di guadagno dei club. In Italia, archiviata l’era Sky, Dazn si è aggiudicata i diritti dela Serie A per il triennio 2021-2024 con un investimento da 840 milioni di euro a stagione. Una cifra importante, ma lontanissima dagli 1,85 miliardi di euro annui che introita la Premier League. Un business, quello dei diritti televisivi, in fermento in seguito all’ingresso di nuovi players come Amazon, Tim con la già citata Dazn, Helbiz, Eleven Sports.
In un’ottica di globalizzazione del calcio italiano, bisogna pensare sempre più ai diritti venduti all’estero, essenziali per incrementare la base di tifosi e capitalizzarne la passione.
In quest’ottica è stato importante il contratto che la Lega Serie A ha siglato, in esclusiva, con il canale americano CBS Sports per la trasmissione di campionato, Coppa Italia e Supercoppa nel triennio 2021/2024. Un accordo da 180 milioni di euro complessivi – 60 annui – in cui il patron della Fiorentina, Rocco Commisso (proprietario della Mediacom), ha giocato un ruolo fondamentale. Mossa azzeccata, anche in considerazione del fatto che gli Stati Uniti ospiteranno i Mondiali del 2026. Ma anche in questo caso numeri non paragonabili a quelli garantiti alla Premier League dal contratto stipulato con la NBC, grazie al quale l’emittente Usa si è assicurata l’esclusiva per i prossimi sei anni alla cifra monstre di 2,38 miliardi di euro. Semplificando il computo, il campionato inglese riceverà ogni anno 396 milioni di euro, cifra di oltre sei volte superiore rispetto a quanto riconosciuto dalla CBS alla Lega Serie A. Insomma, il gap è veramente ampio: alla governance del nostro calcio il compito di ridurlo. Il più possibile, il prima possibile.