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Tuchel: “Mi piacerebbe allenare in Italia. Mbappé e Neymar? Complicato gestirli, ma c’è un altro aspetto da sottolineare”

09.10.2021 | 15:33

Premier League

Nel corso dell’intervista rilasciata al Festival di Trento, Thomas Tuchel si è espresso su tantissimi argomenti. Di seguito le sue dichiarazioni.

Sulla sconfitta contro la Juve in Champions

“Alle volte ci si aspetta una cosa e non è sempre così, le aspettative sono una questione delicata. Pensare di potere dire ai calciatori che già sai quel che accadrà non è vero. Ma mi potevo aspettare che succedesse così, che dominassimo. Prima della partita forse ero mentalmente stanco, l’approccio difensivo va bene, ma mi è sembrata una partita contro l’Atletico Madrid. Avevamo vinto 1-0 ma eravamo stati molto offensivi, ma poi la partita la giudichi dal risultato e stavolta è una vittoria per la Juventus. Magari ti fanno i complimenti per la tattica, per l’approccio, ma abbiamo fatto tre errori fondamentali. Abbiamo fatto sì che la Juventus credesse così in se stessa: ma non è che non si sono meritati la vittoria, solo che con l’Atletico non avevamo fatto sbagli. Lì siamo stati pazienti. Ovviamente accettiamo la qualità, la storia e la tattica dell’allenatore. Rispettiamo, non possiamo dire arriviamo lì e vinciamo”.

Su Mourinho

“Mourinho diceva a Costinha che era bravo, a Maniche che era una merda per farli rendere allo stesso modo? È una questione di feedback. Alle volte si dice solo sì o no, bisogna essere duri. Altre volte coinvolgi la squadra, altre deve sentire la critica davanti alla squadra. Nessuno nasconde le cose, la verità va detta. Io posso capire che cosa intende Mourinho, le cose sono così: io credo sempre di più che i giocatori siano consapevoli del loro ruolo, del fatto che non sono in uno sport individuale. Sono aperti alle idee, alle critiche, al supporto. Uno dei compiti principali è prendersi cura di questo. Le piccole frizioni possono accadere ogni giorno, anche se qui un po’ di più: ci sono 22 giocatori che vogliono essere visti, che hanno richieste. È importante non perderli”.

Sulla difficoltà di allenare i grandi campioni come Mbappé e Neymar

“No, non è semplice. Ma ascoltami, ho avuto momenti difficili, anche lasciando andare giocatori che avevano giocato in quella squadra. È accaduto con il Magonza, in inverno, avevamo incominciato a lavorare lì da poco. La sera io facevo fatica ad addormentarmi perché dovevo mandare via dei calciatori. È stata la prima volta che il calcio non mi faceva dormire, mi sono sentito male. Non era gioia allenare all’epoca, questo è capitato al Magonza ma anche quando si studia da allenatori. Non è giusto dire che la colpa è dei calciatori, perché sono delle star. Bisogna sentirsi forti, ma anche la fiducia intorno a te. Ci sono molte sfaccettature, puoi anche essere con le giovanili, se non ti senti abbastanza bravo, anche solo per i genitori che protestano e vorresti parlare con loro, la squadra se ne accorge, la spirale è verso il basso. È una cosa che può diventare pesante. Sono contento e grato di essere arrivato qui. Tutti pensano, ora al Chelsea, al mercoledì e al sabato. Tutto è al servizio del gioco, non ho mai avuto prima. La comunicazione, i livelli, sono così brevi e affidabili che è come essere nei miei giorni migliori al Magonza o nelle giovanili, anche se sono al top d’Europa. Mi sento al sicuro e posso fare le cose meglio, diventi più creativo, puoi meglio trasportare la sensazione alla squadra e ai calciatori. C’è però un substrato di fiducia e di atmosfera che si è creato in questo tipo di ambiente. Com’è stato possibile in pochi mesi? Per questo. Non è giusto attribuire tutte queste difficoltà ai rapporti fra allenatori e calciatori. È più complesso nella maggior parte dei casi”.

Sui suoi discorsi pre-partita

“Ho visto gli effetti dell’essere troppo duro, troppo pessimista o troppo ottimista. Prima del mio primo allenamento nell’Academy ero andato da alcuni genitori a dire come aiutare i calciatori. È stato un errore, ma ho imparato e sono cresciuto. Nel mio essere esigente credo di essere diretto e onesto, una squadra e un singolo giocatore devono accettare il fatto che il loro nome venga citato in un certo modo. Dobbiamo creare un’atmosfera, magari criticare e renderla chiara. Se si dice a un quindicenne che non può rimanere nel club, piange. Perché pensa che il suo sogno si spezza. Forse è quasi più semplice dirlo a un professionista, preferisco dei messaggi positivi rispetto a quelli duri. Però non si scappa, è ineludibile. Bisogna dire certe cose, poi diventa tutto più semplice. Tu devi essere affidabile, le aspettative devono essere esplicitate. Mi piace abbracciare i giocatori, con le persone in genere. Con i sudamericani è ancora più facile, mi piace sorridere. Amichevoli senza essere amici”.

Sul suo soprannome ai tempi del Magonza

“Mi chiamavano scienziato perché il mio studio dello sport non si è mai concluso. Ho studiato come giocatore, ho cercato di fare il fisioterapista alla fine della mia carriera da giocare, ho cercato di studiare inglese per fare l’insegnante. Non ho concluso nulla da calciatore, ma l’obiettivo era quello. Quando ho finito ho studiato economia, che ho fatto contro ogni mio talento, è un paradosso. Era per accontentare mia madre per farla dormire con tranquillità, per fare qualcosa che forse non fosse il calcio. Non mi piaceva, ma ho finito comunque gli studi. Non è solo positivo, se nel calcio ti chiamano scienziato è da nerd, sono freddi, non capiscono l’aspetto emozionale. Ci basiamo sulle statistiche, al Chelsea ci danno molti dati a cui fare riferimento, non è solo la sensazione o l’esperienza. Il meno è quasi più, in qualche modo. Serve un approccio minimalista, che ha rilevanza, che puoi trasferire al team. Nella mia esperienza è che il comfort, il supporto ai giocatori è importante. Non sovraccaricarli di cose. Io cerco di non disturbare i musicisti e la musica, quando hai troppa scelta, o troppa tecnica e tattica, non voglio disturbare. Il calcio è facile”.

Sull’Italia

“Siamo appena tornati da Torino e sono stato a cena con il caffè, il dopo caffè, perdi e devi tornare a casa dopo questo trattamento. Già provato (ride, ndr). Ora non posso chiedere di più, sono al Chelsea, ma il calcio, fino a quando ero bambino, mi ricordo sempre le grandi squadre italiane, quelle che giocavano nell’Inter, tanti italiani vivono in Germania, noi passiamo le vacanze spesso in Italia. C’è una connessione fra me e l’Italia. I logo, le magliette, è una nazione da calcio, in cui è importantissimo, è bellissimo lavorare per la qualità, siete così tattici. Sarebbe un piacere puro per me venire a lavorarci, sentire l’atmosfera che si sente per lo sport, creare un festival come questo. È straordinario e lo sento bene”.

Foto: Twitter Chelsea